Andrea De Simeis: incisore e cartaio
Andrea De Simeis verga preziosi fogli di carta con fibre estratte da piante di tutto il bacino Mediterraneo: fico comune, cotone, ginestra, etc; li colora con segrete tecniche di maestri tessili tintori fino a profumarli con distillati della macchia incolta. La sua carta nasce dalle antiche tradizioni orientali del VII secolo e degli opifici medioevali europei, senza paragoni per qualità e resa di stampa al torchio. Sono infatti fogli ottimi per calcografia, arte antica, eredità di orafi e armaioli, con cui ancora oggi De Simeis fa grafica originale. Le opere del maestro Andrea De Simeis sono incise e stampate al torchio a stella con tecniche che hanno più di sette secoli di storia; sono collezionate in prestigiosi archivi di grafica nazionali e internazionali.
“Nelle incisioni di De Simeis si sente pulsare l’anima del tempo, c’è un fluire impetuoso di sentimenti e di passioni. Si delinea un universo “epico ed etnico”, fortemente connotato antropologicamente”.
Clemente Del Buono
“Andrea De Simeis è come un nuovo Omero che traccia, sui solchi del rame, storie antiche parlate in cerchio ancora bevendo tra la luce accesa delle sere del Sud”.
Vittorio Mottin
Da grande voglio fare il Viaggiatore
di Andrea De Simeis
…A dieci anni non avevo fretta di capire che viaggio e scopo fossero talvolta la stessa cosa e che insieme godessero dell’imprevedibile fascino del caso, della serendipità. Occorrevano molti anni ancora, ieri l’altro, per pensare che fare l’artista fosse un buon pretesto per avverare tutte queste eccezionali eventualità: un’avventura. “Artista” poi non mi si addice, è un prefisso esornante al quale preferisco grandemente parole del mio lessico dialettale, mesciu, artieri: artigiano sensibile e custode di un mestiere fino, di mano e intelletto, in cui si esprima consapevolmente il proprio stile senza coazioni di firma in calce. L’università Nel burrascoso mal di giovinezza dei miei anni universitari, soffrivo il disagio per quell’attesa di una buona sistemazione: quasi plausibili, brillanti aspettative. Insofferente, confessai di voler fare l’artista e anche in questo caso, con clinica pazienza a guisa di paterna comprensione, fui invitato alla ragione: per far l’artista mi sarei dovuto prima assicurare una buona posizione. Avevo di nuovo bisogno di una copertura per occuparmi di quello che volevo fare. La mia ostinazione cresceva e conseguentemente ebbe presto una diagnosi: infantilismo, sindrome di Peter Pan. Questa generale apprensione mi procurava una tale ambascia che fu difficile superare banali complessi di relazione con alcuni parenti, amici, donne, orientati innanzitutto verso un futuro di certezza professionale, solidità sociale. Io invece naufragavo nel conflitto dei compromessi, tra la vita di necessità del rappresentante, cameriere, grafico part-time e una vita appassionata di esperienza e narrazione. Fu a questo punto che trovai il mio timone: il mio maestro di grafica, il mio mentore, Glauco Lendaro Càmilles. Il tempo trascorso insieme curvava sempre all’educazione per la ricerca, all’attenzione, all’ascolto e offriva straordinari e nuovissimi motivi di riflessione. Il superfluo non fu mai così essenziale, la lentezza occasione per l’osservazione di fenomeni quotidiani ma segreti. Davvero la meraviglia per la maieutica spericolata ed efficace mise definitivamente fine alle teorie congetturali del fare per terzi obiettivi, per ritornare al principio, al mio antico viaggiare per viaggiare. Fui toccato da una sensibilità unica più che rara, destinata a sopravvivere con stupefacente forza: stupore vero che accende e incoraggia all’entusiasmo, al viaggio. Fui cultore di tecniche dell’incisione per la sua cattedra per ben due anni e attestato con un titolo di merito per aver contribuito a migliorare l’immagine dell’istituzione accademica. …Scelsi perciò di vivere in questa bella e imprevedibile periferia, lontano da centralissime città al “caso tuo”, dai centratissimi master e concorsi, graduatorie, corsi di formazione, senza punti e crediti, tessera di partito, parenti buoni, amici, amici di amici. Conclusi brillantemente gli studi in Accademia di Belle Arti con la sola grande aspirazione di diventare un buon incisore, un bravo torcoliere. La carta Più che naturale fu appassionarmi di carta, un supporto stampa che restituisse al torchio ogni intenzione grafica, che sopravvivesse al tempo senza compromissioni originali. Divorai testi affascinantissimi e relazioni note e meno di aziende cartarie. Viaggiai in Italia per conoscere grandi studiosi dell’argomento, Franco Mariani, Maurizio Coppedé, e visitai le ultime gualchiere attive. Infine frequentai un corso di introduzione alle tecniche del restauro presso Palazzo Ridolfi Spinelli a Firenze e con grande meraviglia fui invitato a tenere una lezione sulle tecniche di stampa d’arte antica. Scoprì la grande qualità delle carte orientali, special modo della washi giapponese e mi prefissi l’obiettivo di approfondire l’argomento e infine ripetere per conto mio tutte le fasi di questo paziente lavoro: volevo capire profondamente cosa significasse fare carta, carta della migliore qualità dal gelso cinese.
Avevo ormai steso una relazione completa sulle tecniche di manifattura e conoscevo scrupolosamente alcune importanti regole: la qualità della potatura dei rami, tempi e temperature per la lavorazione della cellulosa, le mucillagini naturali per migliorare la feltrazione della fibra sul cascio, procurare al foglio una riserva alcalina, ecc. Rubai un piccolo pollone radicale dal gelso cinese dell’orto botanico di Firenze e l’accudii maternamente. Non saprei esprimere con quali attese guardassi i primi germogli e quanto smaniassi di fare il primo raccolto. Malgrado l’entusiasmo non sarei stato in grado di mondarlo prima del quinto anno di vita e con questi pruriti aspettare sarebbe significato perdere la ragione. Cercai nel repertorio naturale del mio Salento una pianta della stessa famiglia, le moracee, che avesse innanzitutto simili caratteristiche morfologiche. Con grande stupore osservai che il fico comune rispondeva perfettamente a questi requisiti e si prestasse grandemente alle tecniche di lavorazione orientali. Qui al sud il fico è frugalissimo perciò avevo una risorsa straordinaria e in più inesauribile. (…) Il laboratorio Acquistai un torchio Bendini 70x100 di seconda mano, una ingombrante pressa per libri molto più vecchia, tre cassettiere di caratteri mobili in piombo, carta Hahnemuhle e Amalfi, vasche e paioli delle più disparate misure, un distillatore di rame, mirette e punte, strumenti per la misurazione, rulli, ecc. Poi in inverno, nelle lunghe passeggiate sulle coste del mio Salento, raccolsi i relitti di legno dei lidi attrezzati per turisti: travi di copertura, murali di sostegno, porte e panche dismesse. Con una sega a nastro, un trapano avvitatore, una levigatrice, stucco, mordente e ceralacca, costruì tutto l’arredamento del mio laboratorio, perfino il telaio di un letto, all’occorrenza divano, comodissima nefelococugia. Accumulai una tale masserizia che fui costretto a chiedere a molti amici la custodia, fino alla mia eventuale sistemazione. (…) Oggi Il mio attuale laboratorio è finalmente anche il luogo in cui vivo, dopo molte rocambolesche sistemazioni. È una bella e tipica casa colonica con volte a stella e un silenzioso giardino, a Sogliano Cavour, in una via del centro appena alle spalle della luminosa chiesa di San Lorenzo. Questo comune è a misura di una bella periferia, a metà tra Cutrofiano e Galatina, che si guardano dalle loro altezze, vanitose. In questo gran bello spazio lavoro con zelo e furore, semmai sia appropriato coniugarli, e spesso m’immagino di essere in quella fucina dei mastri fabbri ferrai. “Qui il lavoro non è fatica” si legge sulla canna della grande bocca di fuoco dei fratelli Ferrari, mentre il mantice della forgia sbuffa faville. M’immagino così, sudato e ostinato sul ferro, al ritmo del grande maglio e, tra un colpo e l’altro, getto un occhio veloce sulle piccole carte dei miei appunti. Nei particolarismi trovo tutte quelle forme identitarie che esprimono, senza complessità, la ragione originale, forse antropologica, del mio operare. Questo paradiso di cose indispensabili e minute mi risparmia alla costosa competizione dei verticalismi, del vivere veloce e in continuo aggiornamento. Tutto accade in una gradevole sospensione che mi accorda, mi mette in sintonia con me stesso e con gli altri.