Goliardo Padova è nato a Casalmaggiore (CR) nel 1909, ha studiato all’Istituto d’Arte di Parma sotto la guida di Guido Marussig. Si è diplomato all’Accademia di Brera, dove ha appreso, per la decorazione e la grafica, gli insegnamenti di Palanti, che gli ha impresso una matrice secondo-futurista, avvertibile però solo nella sua produzione grafica. Nella pittura, Aldo Carpi gli insegnò a tenersi lontano dal realismo e da ogni tentazione formalistica. Così, già nel ‘31, lo vediamo aderire al Chiarismo ed alle lezioni di Edoardo Persico, con gli amici Del Bon, Lilloni, Spilimbergo e Marini. Lo scultore Messina, del quale fu allievo, lo considerava con molta stima e simpatia. A Brera, infatti, opera, benché appena diplomato, come insegnante, ed è il “pupillo” di Eva Tea di cui conserva testimonianza affettuosa in varie sue lettere e con la quale collabora per le ricerche storiche e i primi restauri agli antichi affreschi lombardi nelle Abbazie di Viboldone e di Chiaravalle. Dal 1934, a 25 anni, è assistente di Marussig a Brera, dove insegna composizione decorativa e grafica pubblicitaria alla Scuola Superiore per gli Artefici (sezione ancora esistente). La cattedra gli sarà confermata fino al 1947.
Oltre alla pittura si dedica alla grafica, realizza manifesti e campagne pubblicitarie (per la Campari, per la Fratelli Branca ed altre).
Verso la fine degli anni ‘30 abbandona i toni chiari e rende la sua tavolozza più densa avvicinandosi a “Corrente”. Partecipa alla prima mostra del Gruppo alla Permanente (marzo 1939). Sarà poi valido collaboratore dello stesso Ente per diversi anni. Con lui vi sono giovani appena usciti da Brera, come Cassinari e Morlotti, ma anche i meno giovani come Lucio Fontana (di cui la famiglia conserva ancora un’opera con affettuosa dedica), Sassu, Birolli, Manzù, Badodi e altri.
Partecipa al “Premio Bergamo” dal 1939 al 1942.
Gli anni ‘40 si aprono sul fosco scenario della guerra, in cui l’Italia sta per entrare. Ben presto, però, Goliardo Padova sarà chiamato alla triste realtà da una serie di sanzioni nei suoi confronti, dovute al suo cognome di origine ebraica. L’8 settembre del ‘43 è in Francia e i tedeschi lo deportano in Germania, nel campo di concentramento politico di Karlsruhe. Una vita infernale di fame e lavoro pesante, sotto frequenti bombardamenti. Perde anche un timpano a causa di uno scoppio. Quando, fuggito dal Lager, torna a piedi dalla Germania pesa 37 chili e ha dentro una grande desolazione che si esprime in una pittura tormentata, drammatica, mentre i disegni sono fortemente polemici contro chi ha voluto o sfruttato la guerra.
Per gravi motivi di salute deve rifiutare di riprendere l’insegnamento a Brera.
Si ritira a Casalmaggiore chiudendosi in se stesso e non parlando più attraverso la pittura, che abbandona nel ‘47, limitandosi ad insegnare nella locale scuola media. Il silenzio si protrae per anni, arriviamo al 1955.
Goliardo Padova riprende a dipingere anche grazie all’amicizia disinteressata di personalità del mondo della cultura, dell’arte e della poesia, basata su comuni sensibilità intellettuali, in particolare Francesco Arcangeli, Attilio Bertolucci, Roberto Tassi, Pietro Bianchi, Mina Gregori, Arturo Carlo Quintavalle, Giorgio Cusatelli, Piero Del Giudice, Elda Fezzi, Giuseppe Tonna. L’artista è cambiato dentro, inizialmente usa solo la tempera, segni e cicatrici affiorano sulla carta; ma è anche aggiornato culturalmente, ciò che sta accadendo nella pittura italiana ed europea gli è noto, anzi l’ha già mentalmente acquisito. Astrattismo e Surrealismo sono esperienze conosciute, mentre il colore viene usato in modo forte, violento. Nel ‘57 riprende a dipingere anche ad olio. È importante notare come la sua pittura, nata sotto il segno del Chiarismo, lo avvicini ora all’Informale, nella linea del grande precursore Claude Monet, facendone un lontano, autentico erede dei maestri del post-impressionismo. In questo ultimo tempo è venuta la “stagione ricca di frutti” come ha previsto per lui il poeta Attilio Bertolucci.
Nel 1961 si trasferisce a Parma e, poco dopo, acquista una casa a Tizzano sull’Appennino. La città gli suggerisce alcune vedute, ma ben diverso è il suo approccio con l’Appennino. Questa capacità di Padova di ritrovarsi anche lontano dal Po, ma pur sempre legato al naturalismo lombardo, è stata più volte sottolineata da Roberto Tassi nelle presentazioni delle mostre da lui curate, («...padano lo era, senza dubbio lo è ancora, ma per le sue radici, e per il suo naturale di uomo attaccato alla terra, e al colore dei campi sotto la luce, e padano denso di umore anziché secco, più insomma verso la Lombardia che verso la Toscana...»).
La morte dell’artista nel 1979, non ha segnato la sua scomparsa né dal mercato né dall’attenzione di critici e galleristi.
Sue opere si trovano alla Pinacoteca di Parma, al Museo Civico di Cremona, al Centro Studi Archivio della Comunicazione di Parma, al Museo della Permanente di Milano, nella Raccolta Bertarelli al Castello Sforzesco di Milano, alla Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza, Collezione Barilla e Archivio Storico Padova ai Musei del Castello Sforzesco di Milano.
(Nota tratta dalla biografia a cura di Pierpaolo Mendogni redatta in occasione della mostra alla Galleria La Sanseverina di Parma nel 1990)